Quando una dieta “non chetogenica” viene chiamata chetogenica

Un caso emblematico di interpretazione scientifica da maneggiare con cura

C’è uno studio recente che ha attirato parecchia attenzione: L-Shaped Relationship Between Ketogenic Diet and High-Frequency Hearing Loss.
Un titolo che pesa. E, onestamente, pesa più del contenuto.

Leggendolo, ci si aspetta di trovare un’analisi sui protocolli chetogenici veri: quelli che riducono i carboidrati fino a spingere l’organismo in uno stato di chetosi misurabile, con aumento dei corpi chetonici circolanti. Oppure si immagina un confronto tra VLCKD, diete chetogeniche classiche, eventuali biomarcatori metabolici, e variabili cliniche che potrebbero – chissà – dialogare con la funzionalità uditiva.

Non è quello che accade.

 

Il nodo centrale: il KDR non misura la chetosi

Lo studio si basa sui dati NHANES, un enorme archivio epidemiologico che però ha un limite strutturale: si affida a questionari dietetici. Non ci sono misurazioni di chetoni, non ci sono soglie reali di carboidrati, non ci sono protocolli. Gli autori hanno quindi costruito un indicatore, il Ketogenic Diet Ratio (KDR), che definisce così:

energia proveniente dai grassi / energia proveniente da carboidrati + proteine.

Non grammi, ma chilocalorie.
E questa differenza, apparentemente tecnica, sposta tutto.

Chi lavora con le diete chetogeniche sa bene che un rapporto calcolato sulle calorie può sembrare “spostato verso i grassi” anche quando l’assunzione di carboidrati è ben lontana dai livelli necessari per indurre chetosi. È il motivo per cui il “keto ratio” clinico – quello vero, il 4:1 o il 3:1 – si calcola sempre in grammi, non in energia. Perché altrimenti si perde il controllo del rapporto metabolico reale.

In altre parole, il KDR non ci dice affatto se le persone fossero in chetosi.
Ci dice soltanto che quella porzione di popolazione consumava una dieta con una maggiore percentuale di grassi rispetto al resto dei macronutrienti. Una fotografia nutrizionale, non metabolica.

 

Allora che cosa ha osservato davvero lo studio?

I ricercatori hanno rilevato una correlazione tra valori più alti di KDR e una maggiore probabilità di perdita uditiva alle alte frequenze. La relazione assume una forma “a L”, con un punto di flesso attorno al 34,1% del valore del loro indicatore. Ma anche qui bisogna trattenersi dal fare salti concettuali: quel “34,1%” non rappresenta la soglia di una dieta chetogenica. Non indica che le persone stessero seguendo un protocollo che induce chetosi. È semplicemente un cut-off statistico del loro indice, ricavato dalla distribuzione dei dati nel campione NHANES.

Quindi, la frase “oltre il 34,1% aumenta il rischio” significa una cosa sola: in quel segmento della popolazione l’alimentazione risultava energeticamente più sbilanciata verso i grassi, non che fosse una dieta chetogenica in senso clinico.

 

Il rischio di confondere i lettori (e i professionisti)

Il titolo dello studio, pur tecnicamente corretto rispetto all’indicatore che gli autori hanno creato, suggerisce una realtà diversa: lascia intendere che sia stata esaminata una dieta chetogenica, con tutto ciò che questa parola porta con sé – dalla chetosi fisiologica ai protocolli usati in neurologia e in medicina metabolica.

E qui nasce il problema.

Nel dibattito pubblico, “chetogenico” è già un termine abusato.
A volte viene associato a modelli alimentari che non hanno nulla a che fare con la chetosi.
Altre volte viene ridotto a slogan o travisato come sinonimo di “tante proteine” o “poche calorie”.
L’uso improprio in un titolo scientifico contribuisce inevitabilmente alla confusione.

Se un lavoro scientifico vuole parlare di chetogenesi, deve misurarla.
Non basta un rapporto calorico a suggerirla.
Non basta un modello statistico.
La fisiologia ha una sua grammatica e la chetosi è un fenomeno misurabile, non un’impressione.

 

Perché è importante essere precisi quando si parla di dieta chetogenica?

Perché la dieta chetogenica, quella vera, è una terapia nutrizionale, non un pattern alimentare qualsiasi. È utilizzata:

  • nel trattamento dell’obesità con protocolli VLCKD,
  • nell’epilessia farmacoresistente,
  • in alcune malattie neurodegenerative,
  • nella ricerca clinica su oncologia e metabolismo.

Attribuirle associazioni che derivano in realtà da semplici alimentazioni ricche di grassi rischia di distorcere la percezione pubblica e di compromettere la comunicazione medico-scientifica. E in medicina, le parole contano almeno quanto i numeri.

 

Una riflessione finale

Lo studio offre uno spunto interessante sul rapporto tra composizione nutrizionale e salute uditiva, un tema poco studiato. Ma chiamare “ketogenic diet” ciò che non è mai stato valutato come tale introduce un’ambiguità che non aiuta né i professionisti né i lettori.

È un promemoria utile per tutti: quando un termine ha un significato clinico preciso, non va diluito.
E quando si parla di chetosi, l’unico modo per sapere se c’è… è misurarla.

 

 

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