Chi lavora nel mondo dell’obesità lo sa: il panorama è cambiato, e parecchio. I GLP-1 — semaglutide, tirzepatide, liraglutide e compagnia — non sono più delle promesse, sono strumenti reali. E funzionano.
Le percentuali parlano chiaro: parliamo di perdite di peso tra l’8% e il 21% in pochi mesi. Non solo: migliorano i parametri cardiometabolici, abbassano la pressione, riducono l’infiammazione. Insomma, un colpo di fulmine per medici e pazienti.
Però… sì, c’è un però. Perché i numeri degli studi clinici non sempre si traducono nella vita vera.
Funzionano, ma non durano
Il problema è che molti pazienti mollano prima dell’anno. Chi per i disturbi gastrointestinali (vedi articolo su effetti collaterali), chi perché il farmaco costa troppo, chi perché si aspettava risultati ancora più rapidi. E chi, semplicemente, non regge la fatica psicologica che comporta cambiare tutto — tranne l’alimentazione.
Perché diciamolo: ridurre l’appetito va benissimo, ma se poi quello che mangi è sbilanciato, troppo poco, troppo povero, o sempre uguale… il corpo si ribella. E a quel punto addio benefici, e bentornati chili.
Una presa di posizione che non si può ignorare
Ecco perché questa nuova dichiarazione congiunta delle quattro principali società scientifiche americane (ACLM, ASN, OMA, TOS) è qualcosa di mai visto.
Una linea guida chiara, concreta, senza giri di parole: i GLP-1 devono essere accompagnati da una strategia nutrizionale vera, strutturata, fatta bene.
Il team guidato da Dariush Mozaffarian, uno che di nutrizione clinica se ne intende eccome, mette giù otto priorità per non sprecare l’occasione terapeutica più potente degli ultimi anni.
Otto cose da non dimenticare mai quando prescrivi un GLP-1
1. Parti dal paziente, non dal farmaco.
Che storia clinica ha? Che aspettative? Che relazioni col cibo?
2. Fai una valutazione nutrizionale seria.
Carenze di ferro? Vitamina D? Massa muscolare a rischio?
3. Gestisci la nausea e la stipsi.
Sembra banale, ma sono tra i motivi principali di abbandono.
4. Dai un piano alimentare completo, non solo ipocalorico.
Dev’essere ricco di nutrienti, semplice da seguire, realistico.
5. Occhio alle carenze
Calcio, magnesio, zinco, vitamine A, D, B1, B12.
6. Proteine e allenamento di forza.
Se si perde massa magra, il dimagrimento è un bluff.
7. La dieta può potenziare il farmaco.
Una chetogenica ben fatta, ad esempio, può rendere i risultati più rapidi e solidi.
8. Non dimenticare sonno, stress, movimento, relazioni.
Perché l’obesità è molto più di un numero sulla bilancia.
Non basta dare un consiglio. Serve un modello
Il concetto chiave è che la nutrizione non è un accessorio, ma un ingrediente attivo della cura.
Ed è qui che entra in gioco il paradigma “Food is Medicine”, promosso dalla Tufts University: non si tratta di semplici raccomandazioni generiche, ma di interventi clinici veri e propri. Parliamo di pasti progettati in base alle condizioni del paziente, pacchetti alimentari mirati, supporto professionale costante e percorsi educativi che insegnano a gestire il cibo come parte della cura.
Un approccio strutturato, che ha l’ambizione concreta — e i dati a supporto — di rendere il farmaco non più indispensabile, perché il risultato si mantiene attraverso il cibo.
Un appello anche alla politica e al sistema sanitario
Chi finanzia i farmaci dovrebbe finanziare anche l’accompagnamento nutrizionale.
È un paradosso coprire una terapia da 1000 dollari al mese e poi negare una visita con un dietista.
Il messaggio è chiaro: una terapia senza un contesto non funziona. E il contesto, in questo caso, si chiama educazione, supporto, accessibilità.
Serve un cambio di mentalità
In fondo, questo documento non dice cose nuove. Dice le cose giuste, finalmente tutte insieme.
Dice che il cibo non è nemico, ma parte della terapia.
Che le strategie più efficaci sono quelle integrate, non quelle a compartimenti stagni.
E che forse, per la prima volta, abbiamo in mano qualcosa che può davvero cambiare le regole del gioco.
A patto che decidiamo di giocare seriamente.
Bibliografia
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