L’idea che ciò che mangiamo possa influenzare la salute del nostro cervello non è più una semplice intuizione da nutrizionisti o medici “alternativi”. Oggi la ricerca scientifica inizia a offrire prove sempre più solide: il cibo non solo modula il metabolismo, ma può anche infiammare (o disinfiammare) il nostro sistema nervoso.
E in un contesto come quello dell’Alzheimer – una malattia degenerativa dove la neuroinfiammazione è una protagonista silenziosa – l’impatto della dieta potrebbe fare davvero la differenza.
Una nuova e imponente analisi pubblicata nel Journal of Prevention of Alzheimer’s Disease nel 2025 ha portato dati molto interessanti su questo fronte: l’aderenza a una dieta ricca di alimenti anti-infiammatori è risultata associata a un minor rischio di mortalità per Alzheimer negli adulti statunitensi, in particolare nei maschi e nei bianchi non ispanici.
Uno studio su scala nazionale: più cibo anti-infiammatorio, meno Alzheimer
Lo studio ha analizzato i dati di quasi 19.000 adulti americani, provenienti dal database NHANES (2007–2014), seguendone i tassi di mortalità attraverso il National Death Index.
Ogni partecipante è stato valutato in base alla quantità di calorie giornaliere provenienti da alimenti classificati come “anti-infiammatori” (frutta, verdura, cereali integrali, spezie, legumi, pesce, frutta secca, oli vegetali di qualità…).
Il risultato? Anche una semplice quota del 10% dell’apporto calorico da alimenti anti-infiammatori era associata a una riduzione significativa della mortalità per tutte le cause, e a una tendenza verso la riduzione della mortalità per Alzheimer.
Nei sottogruppi più colpiti (uomini e bianchi non ispanici), l’effetto era ancora più marcato: gli uomini che non consumavano affatto cibi anti-infiammatori avevano un rischio di morire per Alzheimer 12 volte più alto rispetto a chi ne assumeva almeno un 10%.
Perché l’alimentazione è così centrale?
Il meccanismo biologico è ormai abbastanza chiaro: l’infiammazione cronica di basso grado – spesso innescata da uno stile di vita pro-infiammatorio (cibo ultraprocessato, sedentarietà, obesità viscerale) – favorisce l’accumulo di proteine tossiche nel cervello, come la beta-amiloide e la tau iperfosforilata. Inoltre, compromette la barriera emato-encefalica e altera il microbiota intestinale, con effetti sistemici che amplificano il rischio neurodegenerativo.
In questa dinamica, la dieta può funzionare come una leva potentissima: alimenti ricchi di polifenoli, fibre, omega-3 e antiossidanti aiutano a spegnere i segnali pro-infiammatori (come IL-6, TNF-α, NLR), migliorano la permeabilità intestinale e riducono lo stress ossidativo.
E la dieta chetogenica? Un candidato da non trascurare
Sebbene lo studio non analizzi direttamente la dieta chetogenica, la cita esplicitamente – insieme alla mediterranea – tra le strategie promettenti per la neuroprotezione (vedi articolo). E non è un caso.
La dieta chetogenica, infatti, non si limita a ridurre i carboidrati: innesca uno shift metabolico che porta il cervello a usare i corpi chetonici come fonte di energia alternativa.
Questi metaboliti – come il β-idrossibutirrato – hanno un’azione diretta nel modulare l’infiammazione a livello cerebrale. Attivano le sirtuine, migliorano la funzione mitocondriale, stimolano l’autofagia e proteggono dall’iperattivazione microgliale.
In modelli animali e in piccoli trial sull’uomo, la dieta chetogenica ha mostrato:
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riduzione della neuroinfiammazione;
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miglioramento della memoria e delle funzioni cognitive;
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rallentamento della progressione del decadimento cognitivo.
Non va inoltre dimenticato il legame fra chetosi e microbiota: la chetogenesi sembra favorire una flora più eubiotica, riducendo le specie batteriche pro-infiammatorie e favorendo la produzione di butirrato, un acido grasso a catena corta che migliora la funzione della barriera intestinale e cerebrale.
Uomini e bianchi più vulnerabili?
Un dato curioso (e importante): l’effetto protettivo della dieta anti-infiammatoria era più evidente negli uomini e nei bianchi non ispanici. Questo potrebbe riflettere differenze ormonali, metaboliche, culturali o di esposizione a stili alimentari più a rischio. Gli uomini, ad esempio, consumano mediamente più cibi processati e meno frutta/verdura rispetto alle donne, e potrebbero quindi risentire maggiormente dei benefici di una correzione nutrizionale. Allo stesso modo, le differenze socioeconomiche e culturali possono influenzare l’accesso e l’aderenza a diete protettive.
Non basta ridurre lo zucchero: serve una strategia metabolica
Quello che emerge dallo studio, e dal corpo crescente di letteratura, è che non serve solo evitare gli zuccheri o le calorie in eccesso, ma occorre ripensare profondamente l’equilibrio infiammatorio della nostra alimentazione. Questo include la qualità dei grassi, la varietà dei polifenoli, l’impatto sul microbiota, e in alcuni casi anche una transizione metabolica come quella chetogenica, che può aiutare a invertire processi neurodegenerativi silenti ma attivi già in mezza età.
E allora?
Anche un piccolo passo – ad esempio portare al 10% l’apporto calorico da cibi anti-infiammatori – può avere un impatto enorme, come suggerisce lo studio. Ma per soggetti a rischio elevato o con familiarità per Alzheimer, protocolli nutrizionali più intensivi come la dieta chetogenica – sempre sotto controllo medico – potrebbero rappresentare un’opzione terapeutica concreta e sottoutilizzata.
L’alimentazione non è solo prevenzione: in alcuni casi, è una vera terapia per il cervello.