C’è una nuova frontiera nella battaglia contro la dipendenza da cibo ultra-processato. E no, non si tratta dell’ennesima dieta-lampo né di una moda su TikTok.
Parliamo di un protocollo serio, testato per 12 mesi in tre Paesi (Regno Unito, Stati Uniti e Svezia), che ha combinato una dieta low carb con incontri settimanali di gruppo, educazione psico-comportamentale e supporto sociale. I risultati? Sorprendentemente positivi.
Pubblicato ad aprile 2025 su Frontiers in Psychiatry, lo studio porta la firma di Jen Unwin e colleghi, e propone un cambio di paradigma: trattare la dipendenza da zuccheri e junk food come una vera e propria dipendenza comportamentale, al pari di quella da alcol o droghe.
La “UPFA”: una dipendenza senza diagnosi
Nel mondo scientifico il dibattito è acceso: la “Ultra-Processed Food Addiction” (UPFA) non è ancora un disturbo riconosciuto nei manuali diagnostici come il DSM-5 o l’ICD-10, ma sempre più studi la osservano da vicino. I numeri non sono trascurabili: circa il 14% degli adulti, secondo stime, potrebbe rientrare nei criteri di dipendenza da cibo industriale. E tra chi soffre di bulimia o binge eating, la percentuale è ancora più alta.
Il punto cruciale? Questa dipendenza riguarda alimenti specifici – quelli più “dopanti” per il cervello: pizza, biscotti, cioccolato, patatine, gelato. Cibi ad alto impatto glicemico e ultra-processati, spesso progettati per stimolare una risposta gratificante che, per alcuni, diventa incontrollabile.
Il protocollo: cibo vero, zuccheri zero
Il programma studiato prevedeva 10-14 settimane di incontri online in piccoli gruppi, seguite da un anno di supporto mensile. Al centro, una strategia semplice quanto radicale: eliminare completamente zuccheri aggiunti, cereali raffinati e cibi industriali, favorendo un’alimentazione basata su “real food” – proteine, verdure, grassi buoni – con forte riduzione dei carboidrati.
Un approccio dichiaratamente “astinente”, ispirato ai modelli di trattamento delle dipendenze, ma applicato all’alimentazione. Accanto alla dieta, però, anche educazione sulle dinamiche dell’addiction, strumenti per la gestione del craving, tecniche di prevenzione delle ricadute e momenti di riflessione personale.
I risultati a 12 mesi
I numeri parlano chiaro. I sintomi di dipendenza – misurati con scale validate come mYFAS 2.0 e CRAVED – si sono ridotti in modo significativo e duraturo in tutti e tre i Paesi coinvolti, con un passaggio marcato da profili “gravi” a “nessuna dipendenza” in molti partecipanti.
Non solo: anche il benessere mentale è migliorato (valutato tramite la scala SWEMWBS), e in due delle tre coorti si è osservata una riduzione del BMI. Ma attenzione: il calo ponderale non era l’obiettivo del trattamento. “Curare la dipendenza, non la bilancia” – questo lo spirito del programma, che punta a ripristinare un rapporto sano e stabile con il cibo.
Un approccio da integrare, non da contrapporre
Chi si occupa di disturbi alimentari potrebbe storcere il naso di fronte a un intervento che propone l’astinenza da determinati alimenti. Ma gli autori sono cauti e rispettosi: “Non si tratta di sostituire un modello con un altro”, si legge nelle conclusioni, “bensì di riconoscere che alcuni pazienti possono trarre beneficio da approcci diversi, inclusi quelli ispirati al trattamento delle dipendenze”.
È chiaro che servono ulteriori studi, idealmente randomizzati e controllati, per confermare questi risultati su larga scala. Ma intanto, questa ricerca rappresenta un primo passo concreto verso un trattamento strutturato per una condizione reale, spesso sottovalutata o minimizzata con il solito consiglio: “Mangia con moderazione”.
Già, ma cosa succede quando la moderazione non è possibile?